Presentazione Libri di Vladimir Zelinskij, Padova

RIVELAMI IL TUO VOLTO e MISTERO CUORE SPERANZA

Vladimir Zelinskij, scrittore e teologo ortodosso

L’incontro si è tenuto il 14 gennaio 2011 presso la libreria San Paolo – Gregoriana  a Padova in Via Vandelli 8.

Pubblichiamo i testi delle interessanti relazioni.

Presentazione dell’autore dei libri:

  • RIVELAMI IL TUO VOLTO – Effatà Editrice
  • MISTERO CUORE SPERANZA – Àncora Editrice

(a cura di Lorenzo Fellin)

Buona sera e benvenuto a tutti, in particolare al relatore, professore all’Università di Bergamo e sacerdote ortodosso, padre Vladimir Zelinskij.

Il prof. Lorenzo Fellin - presidente del Centro Solov'ev

Nell’ambito di questa sorta di venerdì letterari, felicemente inaugurati dalla libreria San Paolo-Gregoriana, in collaborazione con la Pastorale per la cultura della Diocesi di Padova (il mio grazie ad entrambe) si è voluto per la seconda volta dare voce a insigni rappresentanti della cultura russa e ortodossa.

La prima volta, nel novembre scorso, per la presentazione della nuova edizione tradotta e commentata dal prof. Natalino Valentini del fondamentale testo di Pavel Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. È stato un incontro sorprendente non solo per il suo alto spessore culturale, ma per aver messo in luce un inatteso e diffuso interesse padovano per Florenskij e più in generale per il pensiero filosofico e religioso russo del XIX secolo, che a torto si pensava potesse riguardare solo pochi addetti ai lavori.

Oggi è la volta di due opere di Vladimir Zelinskij, MISTERO CUORE SPERANZA e RIVELAMI IL TUO VOLTO, opere che l’autore stesso ci illustrerà, opere per certi aspetti provocatorie e coraggiose perché propongono al nostro mondo occidentale spesso superficiale e distratto, laicizzato, inedite riflessioni sulle questioni prime, che scaturiscono dalla sensibilità e dalla profonda spiritualità del mondo ortodosso.

Nulla viene lasciato da Zelinskij senza risposta: vita, sofferenza, morte; matrimonio e famiglia; liturgia, tradizione ed Eucaristia; ecumenismo; arte e fede; all’interno di un difficile ma convincente percorso che, mentre nel libro MISTERO CUORE SPERANZA sembra essere sollecitato dalle dinamiche della cultura e della storia, subisce un’impennata verticale nel secondo testo (RIVELAMI IL TUO VOLTO), nel quale il contrappunto tra immanenza e trascendenza, grazie alla robusta spiritualità ortodossa, punta decisamente (e forse per qualcuno anche scandalosamente) ad additarci il Volto di Dio, «il Cristo come il Visibile del Padre ma anche l’Invisibile dell’uomo», per utilizzare la frase conclusiva dello stesso autore.

Mi sembra particolarmente significativo che queste tematiche ci vengano proposte in casuale coincidenza con la Settimana per l’unità dei cristiani e in un momento di particolare difficoltà per ogni forma di dialogo, un momento segnato da episodi di intolleranza che finiscono sempre più spesso nel sangue. Scenari che ci auguravamo scomparsi dalla storia ma che invece periodicamente risorgono e rinvigoriscono quasi a sottolineare, per chi ha fede, la realtà di peccato in cui vive il mondo, una morsa fatale contro la quale nulla sembra potere il lume dell’intelletto; una morsa dalla quale l’autore pare invece svincolarsi attraverso la scoperta di un Dio incomprensibile ma che si rivela nel cuore dell’uomo.

Questi testi che ci vengono proposti, oltre al loro ricco e stimolante contenuto, assumono a mio avviso grande importanza anche in ragione della loro forte valenza di relazione.

In primo luogo perché si rivolgono a tutti i cristiani non solo agli ortodossi, spingendoli a riconoscere e a condividere le comuni ricchezze piuttosto che assestarsi sui distinguo, spesso anacronistici e legati a sofismi dottrinali o teologici, o addirittura a incrostazioni mai rimosse, contestualizzabili storicamente. In un momento di difficoltà del dialogo interreligioso questi testi divengono viatico perché si rafforzi il dialogo tra cattolici e ortodossi non essendo più sostenibile, culturalmente e storicamente, lo scandalo della divisione.

In secondo luogo perché padre Zelinskij mostra con grande lucidità come la concezione del mondo occidentale verso l’ortodossia sia spesso sbagliata e ormai datata. Non si può più affermare rozzamente, come fece qualche tempo fa un ministro austriaco citato dall’autore, che «dove comincia l’ortodossia finisce l’Europa» perché l’ortodossia, con l’emigrazione massiccia dall’Est europeo, con la sostanziale caduta di molte frontiere, vive e fiorisce anche in Europa occidentale, in America, in Australia e in Giappone e se steccati – ahimè – rimangono vi è certo sopra di essi un unico cielo da scoprire, sia pure con cammini diversi che sottendono del resto variegate e peculiari ricchezze, mutuamente arricchenti, pur senza sottendere le difficoltà che nascono dalle diverse matrici culturali e talora da tradizioni più di natura etnica che religiosa.

Venendo all’autore, e alla sobrietà che egli chiede nel presentarlo, mi limiterò a dire che è nato nell’allora Unione Sovietica ed è, certo, un convertito dall’educazione atea in età adulta, lasciandosi poi plasmare nel suo futuro di docente e di prete dall’incontro con la fede avvenuto dopo un occasionale ingresso, per la prima volta, in una chiesa ortodossa di Mosca (come scrive nel suo libro MISTERO CUORE SPERANZA).

Il trasferimento in Italia, nel 1991, lo porta all’insegnamento di Lingua e civiltà russa presso l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano e Bergamo, ad essere Rettore della parrocchia ortodossa della SS. Madre di Dio Gioia degli Afflitti di Brescia, una delle 6 parrocchie ortodosse italiane che si riconoscono nel Decanato d’Italia dell’Arcivescovado per le chiese ortodosse russe in Europa occidentale, giornalista collaboratore di molte riviste, tra cui Vita e Pensiero, Humanitas, Mondo e Missione, nonché scrittore di un numero davvero ragguardevole di opere in russo, italiano, francese, inglese, alcune delle quali pubblicate anche in quella che era la stampa clandestina durante il regime sovietico. Tra le altre opere da lui pubblicate ricordo solo, perché molto citato, il testo: Perché il mondo creda. Un ortodosso a Mosca dialoga con il card. Ratzinger (La Casa di Matriona, 1988). Altre opere sono recensite nelle bibliografie dei due libri che verranno ora presentati.

La parola ora a padre Vladimir.

CONFESSIONE DELL’AUTORE

Un autore che debba presentare i propri libri, soprattutto libri che parlino di una materia così fine e delicata come la vita di un’anima, si trova in una posizione un po’ scomoda. Non si può portare la propria anima su di un piattino offerto al pubblico ed ancor meno fare una banale pubblicità. Forse, sarebbe più giusto cercare un contatto amichevole,

Padre Vladimir Zelinskij

entrare in dialogo, provare a condividere con gli ascoltatori i vissuti ed i pensieri che possano avere un qualche significato anche per gli altri. Quale significato? Direi, prima di tutto, quello della fiducia nel mondo in cui ci troviamo. Quel mondo dove già da tempo è diventato un luogo comune confessare il declino del cristianesimo. Sentiamo spesso parlare dell’apostasia, dichiarata o seminascosta, della riduzione della fede ad un minuscolo e privatissimo affare della nostra solitudine, della globalizzazione della cultura di consumo, della secolarizzazione che non sopporta più nessun simbolo religioso visibile. Accanto a questi segni vediamo l’invasione di altri dei stranieri, che si sentono in casa propria in questo ambiente, degli dei delle stelle, delle superstizioni più selvagge, oppure della fuga dalle Chiese storiche per entrare nelle religioni asiatiche o in quelle più semplici. Davvero si può proclamare l’eclissi del Dio cristiano? (mi ricordo il titolo di un famoso libro di Martin Buber). No, Dio non si spegne mai, «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre», come dice la Prima lettera di San Giovanni. Tutti noi siamo chiamati a ritrovare, a far brillare, a gustare quella luce, a vincere le tenebre in noi che ci separano da Dio. Dio rimane con noi, Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre, ma ogni epoca ed ogni credente, in un certo senso, ha il compito di trovare una propria definizione della Sua presenza nel cammino della vita, del Suo amore, del Suo mistero. Ogni anima che crede è la storia di Dio raccontata di nuovo da lui stesso, ma con la voce o con le lettere della vita umana. Per tornare a Cristo da quel post-cristianesimo in cui lui è stato esiliato da noi, ogni suo discepolo dovrebbe raccontare l’avventura di Dio nella sua esistenza, invitando gli amici al banchetto della propria fede. Qualsiasi racconto del genere ha un proprio segreto che vuol essere scoperto poiché i segreti del nostro rapporto con Dio non cercano il nascondiglio, ma la vita all’aperto. La missione dei cristiani è di rivelare tutte le storie, le speranze, le scoperte di Dio, perché la Sua cosiddetta debolezza nel nostro tempo diventi forza rinnovata e nuova Pentecoste. Allora ciascuno parlerà la lingua della propria confessione di fede, la lingua del Cristo che è in noi, come dice san Paolo, la lingua dello Spirito, le cui primizie, secondo lo stesso Paolo, noi portiamo nei nostri vasi d’argilla.

I due libri che cerco di presentare, libri-fratelli o libri-cugini, perché sono simili ed al tempo stesso diversi, sono nati da questo sforzo di descrivere la scoperta della cosa più incredibile che ho fatto nella mia giovinezza, la scoperta che Dio esiste e mi parla con la bocca ed il cuore di Gesù. Da quel momento mi è capitato di dubitare tante volte di me stesso, della mia fedeltà alla chiamata di Dio, ma mai della sua rivelazione, della sua verità, della sua presenza nella mia vita e nella vita di tutti gli uomini, della sua compassione e del suo amore. Ho cercato di confessare proprio l’avvenimento di questo incontro, che dura fino ad oggi, in queste opere che rappresentano le due facce della stessa esperienza, della stessa vita. Il primo – Mistero, Cuore, Speranza – è la visuale aperta e sociale della fede della Chiesa ortodossa – Chiesa nella quale ho ricevuto il battesimo e poi, più di due decenni dopo, anche il sacerdozio. Ma non solo. Insieme a questi due sacramenti (con gli altri, compreso il matrimonio), sono entrato in comunione con l’enorme patrimonio spirituale, con la cultura del cuore, con l’universo della preghiera, con la saggezza dell’insegnamento dottrinale, con quella memoria sacra che si chiama tradizione ed il cui passato di duemila anni di cristianesimo rimane sempre vivo. Il primo capitoletto di questo libro “Apriamo il dialogo dal mistero comune” per me è un punto di partenza, un invito alla condivisione delle nostre ricchezze che nella profondità non sono separate. Cerco di raccontare la fede ortodossa in termini accessibili non solo agli addetti ai lavori teologici, ma nella chiave dell’accoglienza, della condivisione, della comunicazione da cuore a cuore. Il libro accenna a tre punti esistenziali: Dio è l’incomprensibile che rivela la sua esistenza in Cristo, che parla ad ogni uomo che spera e che attende l’incontro per essere abbracciato da lui. Gli argomenti principali – la vita spirituale nella Chiesa ortodossa, alcuni elementi della sua dottrina trinitaria, la vita liturgica, il ruolo della Madre di Dio, l’icona, le immagini della santità, il matrimonio, l’etica, la bioetica e così via – sono esposti, almeno io lo credo, in maniera dialogale, nel tono dell’invito e non con quello dell’indottrinamento. C’è anche un’altra cosa a cui accennare: si tratta del primo libro sull’ortodossia non tradotto, ma scritto in italiano e spero, senza per questo aver perso la mia identità di cristiano russo.

L’altro volume – Rivelami il tuo Volto – è dedicato invece al rapporto interiore con Dio. Se nel primo libro il mistero di questo rapporto è piuttosto proclamato, ma non è ancora toccato “con le nostre mani”, come dice san Giovanni, la riflessione sul Volto di Dio prova a comunicare ciò che di solito sfugge nella comunicazione sociale. Come si può raccontare il mistero? Con le parabole di un pensiero che attinge dall’esperienza vissuta. Tutte queste parabole ci parlano della riconoscenza. Questa parola con il prefisso “ri” significa che la conoscenza di Dio ci è stata data dall’inizio, con la luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo, con l’amore dei nostri cari, con la bellezza del creato, con il senso dell’insondabile profondità dell’esistenza, con la coscienza e con tanti altri doni. La conoscenza di Dio è propria alla natura umana, creata ad immagine di Dio, ma bisogna ritrovarla, rivelarla sempre di nuovo. Il libro Rivelami il tuo Volto propone dieci strade per questo ritrovamento. Ognuna di esse si divide in tre stradine, cioè in tre meditazioni. Non possiamo avvicinarci a ciò che è incomprensibile, ma siamo capaci di distinguerne i riflessi sulle cose visibili, vicini a noi. Per esempio, il titolo della prima meditazione “Il mare, il cero, lo sguardo” ci parla della conoscenza di Dio tramite l’immagine della luce della candela che illumina un pezzo dell’immenso mare notturno. Ma anche questa piccola fiamma accesa nella notte della non-conoscenza ci apre all’immensità della benedizione di Dio. I temi di queste meditazioni sono vicini a quelli del libro sull’Ortodossia, ma sono trattati ad un livello esistenziale, livello in cui tutti i credenti possono capire gli uni gli altri. Il libro è scritto nel genere della filosofia poetica, ma l’idea teologica che guida e organizza tutto il pensiero è chiaro e semplice: il mistero dell’Incarnazione ci rivela la gloria della creazione poiché ogni creatura sulla terra è chiamata all’esistenza dal Verbo. Siamo sollecitati a vivere in lui, ma anche a celebrarlo, perché la fede in Cristo è cambiamento interiore, metanoia, ma anche festa.

Spero che queste due opere, ispirate dalla visione del Verbo, presente e celebrato in tutti gli esseri umani, porti non solo un chiaro messaggio ecumenico, ma anche la speranza e la gioia dell’unità.

GLI ORTODOSSI IN ITALIA

Meno di un secolo fa i confini fra le religioni potevano ancora coincidere con quelli geografici. A questa epoca la presenza degli ortodossi in Europa occidentale era ridotta a poche cappelle e a un piccolo numero di chiese che officiavano per il personale delle ambasciate o per pochi viaggiatori, originari di quei paesi dell’Est. Nel XX secolo le guerre, le rivoluzioni e l’esodo dei popoli, dall’Asia Minore e soprattutto dalla Russia (dopo la rivoluzione del 1917, ma anche dopo la seconda guerra mondiale) hanno portato in Occidente milioni di ortodossi, i quali hanno costruito le loro parrocchie e hanno messo radici nei paesi che li hanno accolti come immigrati. In Europa siamo soliti pensare ancora all’Ortodossia in termini etnografici, come ad una confessione destinata a restare per sempre “orientale”, senza quasi accorgerci che già da tempo esiste un’importante presenza ortodossa francese, inglese, tedesca, senza contare quella americana (che pure conta una sua Chiesa autocefala). L’Ortodossia italiana, anche in senso istituzionale, è già in una fase di fermentazione.

Il caso dell’Italia (come anche quello del Sud dell’Europa occidentale, Spagna e Portogallo) è particolarmente interessante. Il crollo del comunismo negli anni ’90 ha portato in Europa occidentale una nuova grande ondata di immigrati provenienti da paesi di tradizione ortodossa. Numericamente sono, forse, più di un milione e alcuni dicono che in certe zone l’ortodossia sta per diventare la seconda presenza religiosa in Italia, anche se in questo campo è difficile esprimere dei dati concreti poiché si tratta di un’emigrazione in gran parte clandestina o semiclandestina. In ogni caso, il loro ruolo sociale è diventato più che importante. Se l’economia italiana, come dicono, non può girare a pieno ritmo senza gli immigrati del Sud, la famiglia italiana, tenendo conto della longevità che va aumentando e dei costi sociali dei servizi, sembra non poter più risolvere i propri problemi senza l’aiuto offerto dall’Est. Non solo nelle fabbriche e nei campi, ma anche presso il focolare domestico s’incontrano, a volte si scontrano, due modi di vivere, due mentalità, addirittura anche due civiltà che non sono così lontane l’una dall’altra, ma che hanno le proprie tradizioni e abitudini diverse.

Oltre ai collaboratori domestici arrivano anche gli uomini d’affari, i quali mandano spesso i loro figli a studiare nelle più prestigiose università dell’Occidente; si moltiplicano i matrimoni misti, senza parlare delle decine e decine di migliaia di pellegrini che passano ogni anno per Roma e per Bari (dove sono conservate le reliquie di san Nicola, il santo più venerato dai russi); si hanno, infine, le crescenti conversioni di italiani all’Ortodossia, e questi sono proprio i più convinti e attivi. La presenza reale dell’Europa ortodossa in Italia sta diventando sempre più visibile, ma il suo ruolo culturale non è ancora stato scoperto e ripensato. Col passare degli anni di sicuro dovremo confrontarci con la loro esistenza nell’ambito confessionale, culturale e, forse, anche politico. In futuro per “dialogare” con l’Ortodossia non ci sarà sempre bisogno di andare all’estero, né sarà necessaria la mediazione di una lingua straniera, ma si potrà scoprire il messaggio ortodosso anche in casa propria, nella propria lingua e come parte del patrimonio comune europeo.

Quando parliamo della presenza ortodossa in Occidente non dobbiamo dimenticare che la maggior parte delle Chiese dell’Est (tranne quella greca) sono appena giunte ai primi vent’anni di libertà. Gli ortodossi si confrontano con dei popoli democratici arrivando da un’esperienza di oppressione e di persecuzione. Il loro martirio nel XX secolo rimane un argomento ancora quasi sconosciuto in Europa.   Questa storia non può non lasciare tracce nella mentalità dei cristiani dell’Est. Gli ortodossi – e non solo loro – entrano in Europa con tante ferite celate. Una delle ferite più gravi è proprio la perdita della loro identità religiosa, delle radici della fede, di qualsiasi pratica religiosa. Ma il piccolo miracolo è sempre possibile, anzi, sta diventando quotidiano: loro scoprono la vita religiosa, varcano la soglia delle nostre chiese per la prima volta qui, in Italia, intorno ai cinquant’anni e si pentono per la loro incredulità precedente. L’emigrazione, con la nostalgia inevitabile che l’accompagna, è divenuta un grande laboratorio della conversione di massa. All’estero i nuovi immigrati scoprono Dio nella propria esistenza, anzi loro condividono questa scoperta con gli altri, formano le nuove comunità.

Da chi è formata questa comunità? Dal punto di vista sociologico si tratta della categoria della popolazione più umile e spesso umiliata: delle cosiddette colf e badanti. Il caso tipico: immaginiamo un italiano o un’italiana con ottant’anni già ben suonati, malato/a, solo/a, perché i figli con i loro figli già adulti, vivono separatamente, facendo brevi visite alla mamma o al papà. Cosa fare con il genitore infermo? Mandare nella casa di riposo costa tanto ed è poco umano. Una soluzione migliore è quella di dare vitto e alloggio alla badante dell’Est per il suo lavoro 24 ore su 24, forse con qualche ora di riposo una volta alla settimana. E queste due donne, una ha 87 anni l’altra 52, con due vite molto diverse alle spalle, con i loro caratterini, con i vizi e le virtù accumulate durante la vita, passano insieme gli ultimi anni, mesi giorni, quanto dura la vita della padrona. Tutte le infermità del corpo umano in declino sono ormai affidate a questa straniera che ha appena imparato l’italiano molto primitivo (ma a volte la nostra vecchietta parla solo il dialetto), che può essere vittima di qualsiasi sfruttamento. che ha lasciato il marito disoccupato e due figli in Ucraina che vogliono studiare e l’Università costa. Ma anche in queste condizioni, fuori dei problemi sociali, fra una padrona inferma e la sua serva si instaura un’amicizia e a volte loro diventano più vicine l’una all’altra che le proprie famiglie: le famiglie sono lontane, ma loro sono attaccate l’una all’altra in modo strettissimo. A volte possono diventare quasi nemiche, ma più spesso questo legame cresce umanamente, spiritualmente. A questo punto finale della vita di una di loro avviene un autentico incontro religioso. Il vero ecumenismo può trovare i suoi focolai segreti, non sempre alle commissioni teologiche, ma proprio al crocevia della morte di una e della povertà dell’altra, quando la mia parrocchiana ortodossa mi chiede di pregare per la sua padrona cattolica malata o commemorare quella che è già morta.

Ogni straniero che viene in un altro paese porta con sé il suo mondo e deve adattarsi al mondo d’altrui. Il carattere italiano, devo dire, è più compatibile con gli altri, ma i piccoli “scontri delle civiltà” sono a volte inevitabili. Per esempio alcune famiglie italiane non capiscono perché la donna che li serve debba andare in chiesa solo la domenica mattina e non in un altro tempo; inoltre – sembra strano, ma vero – sono irritati dal digiuno seguito dalla loro badante. Ma queste sono naturalmente piccole cose, i conflitti religiosi fra gli italiani e la gente dell’Est europeo non ci sono. Le icone ortodosse in qualche angolo, di solito, piacciono a tutti. Il problema che si pone non è questo della compatibilità, ma quello dell’identità di essere ortodosso in Italia, in Occidente.

Parlando dell’Ortodossia in Italia, dobbiamo naturalmente arrivare al problema o al dolore ecumenico. Il dolore che vuole diventare speranza. L’Europa non è soltanto lo spazio economico, ma anche il continente dell’incontro spirituale dove ogni parte può portare i suoi doni. Per gli europei la crescente presenza ortodossa potrebbe contribuire alla riscoperta della propria ed antica tradizione cristiana che era comune – un fatto conosciuto e sempre dimenticato – per l’Oriente e l’Occidente per i primi mille anni. Per gli ortodossi l’Europa cristiana potrebbe diventare una scuola per la liberazione della grande ric­chezza spirituale propria dell’Ortodossia, per la trasfor­mazione del “deposito” spirituale nella giustizia sociale, politica, quotidiana.

Cosa significa il nostro essere ortodossi in Occidente? Prima di tutto un ortodosso scopre un altro mondo cristiano ed insieme ad esso anche “il dramma della divisione”. La sua drammaticità consiste nel fatto che gli attori stessi, nella gran maggioranza, in sostanza non sentono alcuna divisione; le loro verità, a dispetto del bisogno e della nostalgia reciproci, stanno rinchiuse nelle loro corazze protettive, e ciascuno conserva la propria ricchezza, la propria memoria. E tuttavia, la differenza di misura e il contrasto nel modo di interpretare e di vivere queste verità in “Occidente” e in “Oriente” confermano appunto che prima o poi questi due mondi dovranno intersecarsi come i due bracci della croce del Signore; che alla fine dei conti non potranno fare a meno di incontrarsi e di ritrovarsi nel mistero comune, nell’annuncio comune e nel calice condiviso.

Dio e l’uomo nella vita spirituale

La parola spiritualità non ha un significato ben preciso. Ogni fede si presenta come una confessione pubblica con le sue celebrazioni, come un istituto mistico-sociale con un’ossatura dogmatica e una dottrina morale, o sempli­ce­mente come una somma di convinzioni religiose. Ma sotto queste forme visibili esiste sempre una mirabile “avventura umana”, un “avvenimento dell’anima”: la nostra sete di Dio, la vita davanti a Dio. Nessun tempio riuscirebbe a tenersi in piedi se non fosse costruito con le pietre vive per la costruzione dell’edificio spirituale (1Pt 2, 5). L’edificio spirituale sorge dentro di noi quando tutto il nostro essere “si impegna” nella fede, si apre al mistero divino che ha il volto dell’amore.

La spiritualità quale impegno dello spirito umano nei confronti del Dio Vivente nasce dall’incontro di due persone, un incontro che abbraccia e coinvolge tutto il nostro essere umano trasformandolo. Tuttavia la trasformazione interiore più nascosta si realizza sempre in comunione con gli altri. Nonostante il suo tratto profondamente personalistico, la vita spirituale nella Chiesa d’Oriente ha un carattere comunitario, conciliare anzi, perché alla sua origine la dimensione dell’interiorità e la sfera ecclesiale coincidono e si fondono nella divino-umanità del Figlio dell’uomo.

Così, parlare della spiritualità vuol dire parlare di Cristo e di tutto ciò che egli opera nell’animo umano. Quando ci viene data una prova nel nostro spirito della vicinanza di Dio, egli si mostra abitare dappertutto. Quando la nostra vita riflette il volto di Gesù e porta le impronte dello Spirito, essa diventa un frutto maturo della spiritualità, perché dai loro frutti li riconoscerete (Mt 7, 20). Il frutto della fede è l’uomo stesso che si avvicina a Dio per incontrarlo, conoscerlo, vederlo. Eppure nessuno ha mai visto Dio… (Gv 1, 18).

La conoscenza di Dio ci viene dalla sua rivelazione che è una manifestazione della sua stessa esistenza. Ma all’inizio di questa conoscenza, come abbiamo accennato, si trova sempre l’esperienza dell’incontro, del Volto rivelato. Non si tratta qui di un’esperienza psicologica o sentimentale, bensì spirituale in senso ontologico; quando, nell’anima mia (Sal 102, 1), lo Spirito Santo dipinge l’immagine del Figlio che rivela il Padre che è nei cieli. Prima di essere un concetto, un dogma, Dio Unitrino si manifesta in noi come mistero ineffabile. Il mistero (che non è per niente un enigma intellettuale) è avvolto sempre dalla luce, i cui raggi sono l’energia di Dio che esprime e rende presente la sua ineffabile essenza. L’incomprensibile e la “luce da luce” coincidono nella persona stessa di Cristo. La rivelazione porta in sé la presenza reale e vivificante del Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile (Col 1, 15), rivelato e mani­festato dallo Spirito Santo. Il Figlio e lo Spirito rivelano il Padre come unica sorgente del mistero trinitario. Si tratta del mistero che sussiste in noi, che si apre a noi, di cui noi siamo eredi e partecipi. La Chiesa non soltanto confessa, ma anche vive questa fede nel suo sapere, nelle sue cele­brazioni, nelle sue icone, nella sua santità, nel suo martirio.

La teologia ortodossa insiste molto sull’apofatismo connesso all’atto del conoscere, perché la vera conoscenza proviene dalla rivelazione del mistero: ma la rivelazione è già una relazione con Dio che si apre e si offre a noi. Perciò la rivelazione non deve essere accettata e creduta solo come dottrina stabilita. La conoscenza inizia il suo cammino con la “tenebra divina” (pseudo-Dionigi Areopagita) e si muove non verso la filosofia o la sapienza fine a se stessa, ma si sviluppa come difesa contro l’errore spirituale che nella storia si manifesta nell’eresia. Al di sotto della dottrina rimane il primato del mistero, vissuto non soltanto nelle anime di pochi mistici, ma nell’unità del Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa.

Dio, nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato. Con queste parole entriamo nel cuore del paradosso: Dio è vicinissimo come Persona che ci ama e ci si rivela, e Dio è lontano e sconosciuto come mistero. Questo paradosso si riflette anche nella vita dello spirito. Dio bussa alle porte dell’anima umana, ma più spesso queste porte restano chiuse. La vita spirituale consiste nello sforzo di aprirsi a Dio, nel preparare la via del Signore (Mt 3, 3); nel guadagnare lo spazio interiore per lasciarlo vivere e respirare nell’uomo nascosto nel cuore (1Pt 3, 4).

Questo nostro spazio interiore – il centro dell’essere umano dove Dio entra, respira, si fa segno della sua presenza – è chiamato dalla Bibbia cuore. Tutto il dramma fra Lui e noi si svolge qui. Il cuore umano è il suo santuario segreto, il tempio consacrato o profanato, il luogo dell’adorazione o della ribellione. Nel cuore, Dio manifesta il suo volto ed entra in relazione con l’uomo, lo attira a sé e si offre a lui. Perché Dio è amore, dice san Giovanni (1Gv 4, 8), rivelando che il nostro rapporto con Dio può esprimere, anzi, può portare in sé l’energia di Dio stesso, la natura divina (2Pt 1, 4) a cui per amore l’uomo può partecipare. Ma la sua partecipazione è sempre un dono del cuore, la liberazione dell’interno del cuore (cf 1Pt 3, 4), affinché Dio ivi possa entrare e prendere dimora presso di lui (Gv 14, 23).

Questa esperienza di incontro, di donazione e scambio spirituale è riassunta nella sentenza del santo russo Serafino di Sarov: «Il Signore cerca il cuore, pieno di amore verso Dio e verso il nostro prossimo, il cuore è il trono della Sua gloria. Figlio mio, dammi il tuo cuore e tutto il resto Io ti darò in più, perché nel cuore umano è tutto il Regno di Dio».

L’uomo che entra e abita in questo Regno è un uomo diverso da colui che abita nel mondo, immerso nelle sue passioni e preoccupazioni. Alla soglia del Regno, che è in mezzo a voi (Lc 17, 21), l’uomo deve poter cambiare e trasformarsi in una persona capace di dare e ricevere l’amore di Dio. A questo lavoro si riferisce anche san Paolo quando parla del suo servizio apostolico: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore… finché non sia formato il Cristo in voi» (Gal 4, 19).

Il frutto di questo parto è il conformarsi a Cristo, l’impronta della sua immagine su di noi che si raggiunge grazie alla vittoria sul peccato. Le porte del cuore sono piuttosto pesanti, per aprirle ci vuole la maestria spirituale dell’artista interiore, ma soprattutto la fatica dell’artigiano che fa il suo mestiere con costanza, assiduità e nel dolore. Si tratta del dolore del pentimento, dell’ascetismo, del combattimento interiore.

Il pentimento

Kyrie eleison! Signore, pietà! Gospodi pomiluj! Queste parole scandiscono e costellano ogni celebrazione ortodossa. Un osservatore estraneo che presenzi alla Divina Liturgia o che si trovi ad ascoltare la preghiera del mattino e della sera che il fedele è chiamato a recitare ogni giorno, potrebbe pensare che la pratica liturgica della fede ortodossa consista per la maggior parte nella penitenza davanti al Dio-Giudice, e che il timor di Dio sia il sentimento più diffuso nella devozione ortodossa. Questa impressione è corretta solo se assunta nella consapevolezza che il giudizio più severo ed esigente è quello dell’amore divino. «I peccatori sono tormentati dal fuoco dell’amore», scrisse Dostoevskij.

Ma davvero i santi che hanno vissuto la vita più pura e si sono pentiti molto più degli altri, sono i primi peccatori? Siamo al centro del paradosso dell’uomo nascosto: le lacrime del vecchio Adamo fanno nascere l’uomo nuovo in Cristo. La purificazione interiore fa il miracolo; essa fonde la corazza di pietra in cui è incarcerata la nostra vera natura: creata a immagine e somiglianza di Dio, la natura che irradia la bellezza interiore, è riempita dalla presenza divina.

All’inizio della Quaresima in tutte le chiese ortodosse si legge il Grande Canone di Andrea di Creta, un poema penitenziale, “il canto delle lacrime” (come lo ha definito Olivier Clément). Ogni volta (la lettura occupa quattro serate) la Chiesa si rivolge con la preghiera al santo stesso, il quale si presentava nel suo canone come l’incarnazione stessa del peccato. Colui che si confessa fino all’interno del cuore (1Pt 3, 4), per la grazia e per la misericordia di Dio, diventa suo figlio prediletto.

La disciplina ascetica

Le celebrazioni ortodosse possono sembrare lunghe e abbastanza ripetitive perché il cuore umano è duro e si riscalda lentamente. La Tradizione ortodossa non ha molta fiducia nei fenomeni carismatici, se essi sono accompagnati da una qualsiasi eccitazione nervosa. Una virtù molto apprezzata è la sobrietà, soprattutto nella pratica della preghiera, nella relazione più intima e personale con Dio. La preghiera (supplica, pentimento, glorificazione) contiene un altro movente, che è quello del lavoro per acquisire il dono della preghiera che guarisce l’anima e che, con una grazia particolare, può guarire anche il corpo. Il lavoro interiore va fatto insieme con la preparazione esteriore dello strumento della preghiera: la disciplina ascetica. L’ascetismo ortodosso è una pratica di addomesticamento del nostro essere mentale e fisico per liberarlo dalle dipendenze della carne. La carne (uno dei concetti più importanti nella teologia ortodossa) può avere due significati: creazione di Dio (l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne – Gen 9, 16) e la condizione umana del peccato e della schiavitù (quello della schiava è nato secondo la carne – Gal 4, 23). L’educazione ascetica è come una scala che va verso il cielo e tutti i fedeli sono chiamati a salire di qualche gradino per poter liberare il proprio spirito dalla schiavitù del peccato che agisce anche tramite il corpo. Il corpo umano per l’Ortodossia non è la prigione dell’anima, come nella scuola neoplatonica, ma il tempio dello Spirito Santo (1Cor 6, 19) che collabora con la volontà umana nella trasfigurazione e la deificazione del regno di Dio.

Il combattimento interiore

Dentro di sé, all’interno del proprio cuore, l’uomo non è mai solo, perché i due grandi protagonisti della vita invisibile della sua anima sono sempre in azione. Nella prospettiva ortodossa, che ha le sue radici nella più antica Tradizione patristica, l’uomo è visto come il campo di battaglia fra Dio, che lo chiama a salvezza, e il diavolo, che vuole impossessarsi di lui. In mezzo a queste due forze si inseriscono la libertà e la volontà umana; l’uomo deve scegliere fra queste ed è proprio la sua scelta che diventa l’avvenimento più importante della sua esistenza. Chi non è spiritualmente cieco da non accorgersi di questi due grandi attori nella vita della sua anima, deve prendere la spada dello Spirito (Ef 6, 17), i cui due tagli (Sal 149, 6) sono la penitenza e la disciplina ascetica: per mezzo di essi si impara a vivere in Cristo, a camminare nello Spirito. Ora quelli che sono di Gesù Cristo hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito (Gal 5, 24-25).

L’Ortodossia parla spesso della custodia del cuore sotto due aspetti: uno negativo, come lotta contro il mistero dell’iniquità (2Ts 2,7) che agisce dentro di noi; l’altro positivo, come acquisizione della preghiera pura che diventa il nostro respiro, il fuoco nel cuore. In questo fuoco si brucia ogni peccato, non soltanto in azione, ma anche in pensiero. Perciò il combattimento interiore si fa con dolore e in tale modo l’uomo si salva, però come attraverso il fuoco (1Cor 3, 15).

L’uomo salvato, ammesso nella Comunione dei santi, è l’uomo deificato. Questo termine, tipico della teologia e della pietà ortodossa, incuriosisce spesso i cristiani di altre confessioni, tuttavia la deificazione significa nient’altro che questo: l’uomo, passato attraverso il fuoco, è tornato a se stesso in Dio, al suo io autentico e nascosto, alla sua bellezza originaria. La custodia del cuore e il combat­timento interiore come vita della fede servono alla puri­ficazione nella visione di questa bellezza, per essere trasfor­mati in quella medesima immagine (1Cor 3, 18) dell’uomo trasfigurato.

Così sorge anche l’arte dell’icona, divenuta una sorta di emblema dell’Ortodossia. Ora, non si può veramente entrare nell’arte della pittura senza passare attraverso l’arte dell’educazione dell’uomo nascosto e del suo occhio che vede la bellezza del creato. L’icona non è un ritratto, bensì un ricordo escatologico di quell’immagine che Dio ha sigillato in noi al momento della creazione, quando ci ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria (1Cor 2, 7). Ogni icona è portatrice di un messaggio singolare: Dio è con noi nel Volto del suo Figlio, della sua Madre e degli uomini e delle donne deificati, che sono i santi. La sua presenza è il segreto dell’icona – o, almeno, lo dovrebbe essere – affinché noi non restiamo spettatori passivi. L’icona è il mistero sempre aperto e questa apertura ci invita, ci spinge anche al superamento della chiusura del nostro cuore (cioè della sua condizione attuale in questo mondo decaduto). Senza l’apertura del cuore cristico, senza la nostra partecipazione, l’icona rimane spiritualmente nascosta, poiché la vera arte dell’icona è la ricerca del volto autenticamente umano, la scoperta dell’uomo deificato.

L’arte della partecipazione all’immagine è la pratica liturgica, dalla quale la vita dell’icona non può essere separata. Dal momento che l’icona vive nella preghiera e la preghiera si compie e si incarna nell’icona, non vi è una sola festa senza immagine e non vi è immagine nella Chiesa (soprattutto se portatrice dei miracoli del passato) che non abbia una sua celebrazione liturgica particolare. Nell’Orto­dossia la vita spirituale si costruisce nell’unità e nella coerenza di elementi diversi: liturgici, iconografici, dottrinali e devozionali (cioè della pietà personale). La lex credendi è nello stesso tempo la lex orandi, la preghiera personale è sempre un atto profondamente ecclesiale e l’icona, nono­stante abbia un autore, va sempre considerata come opera della comunità ecclesiale. Il principio dell’unità si trova proprio al centro della vita ecclesiale perché con un solo animo e una sola voce rendiamo gloria a Dio… (Rom 15, 6).

Che vuol dire un solo animo? Si tratta della comunione delle Comunità (o Chiese locali) nella fede apostolica e nella retta glorificazione di Dio. Ma un solo animo si estende anche a tutto il cammino storico percorso dalla Chiesa nel suo insieme. L’Ortodossia vive nella comunione con il proprio passato che è, di fatto, un eterno presente. La Tradizione è il canale e il recipiente della santità vissuta nel passato, la quale prosegue nei riti e nei sacramenti, nelle preghiere, nelle istituzioni e nelle consuetudini. Nella Chiesa niente viene dal nulla o dall’ispirazione di qualche carismatico, ma tutto è frutto dell’esperienza e della presenza operativa dello Spirito Santo che sempre permane. L’Ortodossia vive in costante comunione con tutto ciò che Dio ha fatto nella storia con le mani, con le preghiere, con i doni dei suoi servitori.

Per questo motivo la vita spirituale, per principio, nell’Oriente cristiano non si cambia. Così pure non si cambia il fondamento della Chiesa stessa, la quale, ciononostante, riesce a dare risposte nuove alle sfide di ogni tempo. Il tempo di Cristo e l’epoca degli apostoli sono costantemente presenti in ogni periodo della vita della comunità ecclesiale e formano la sua identità metastorica. Sia la forma visibile di questa identità sia la sua espressione invisibile coincidono nella Tradizione, la quale vive nella Chiesa e – in virtù della sua identità sacramentale e spirituale e nonostante i cambiamenti culturali e rituali – può essere riconosciuta in qualsiasi momento della storia.

Tutte le correnti della vita spirituale sbocciano nella partecipazione «ai divini, santi, intemerati, immortali, sovraccelesti, vivificanti e tremendi Misteri di Cristo» (Liturgia di san Giovanni Crisostomo), nella comunione eucaristica con il Signore. L’assemblea eucaristica rimane dunque non soltanto il centro della vita ecclesiale, ma anche il cuore della vita intima dello spirito. La spiritualità ortodossa si realizza nell’unione con Dio incarnato, crocifisso, risorto e si deve manifestare nondimeno nella fratellanza tra i fedeli. Ogni liturgia è vissuta spiritualmente come sacramento della memoria della santità vissuta, dell’unità del popolo di Dio e della sua gratitudine in prossimità del Regno. In ogni cosa rendete grazie (o fate Eucaristia nella traduzione letterale) dice san Paolo (1Ts 5, 18) perché in ogni cosa – nel cuore umano e in tutto il creato – c’è il suo segreto nocciolo eucaristico.